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Recensione di Valentina apparsa su “il Bo” il 4 marzo 2013 del romanzo “L’ostacolo di Rosamund” di Margaret Drabble (Astoria edizioni, traduzione di M. Morpurgo, 214 pagine).

Non sono molte le famiglie di scrittori, ancor meno quelle di scrittrici entrambe meritevoli di notorietà. È quindi interessante scoprire che Margaret Drabble è la sorella della ben più famosa Antonia S. Byatt (il cognome è quello del primo marito) e che tra le due i rapporti siano tesi al punto che neppure leggono i rispettivi romanzi. Pare che una delle ragioni dei dissapori sia la competizione che le ha sempre animate: la Byatt ha infatti raggiunto la notorietà in modo sofferto ben dopo la Drabble con il capolavoro Possession. A romance nel 1990, quando invece la sorella minore aveva ricevuto il primo riconoscimento a soli 27 anni, nel 1966, per The millstone, solo ora tradotto in italiano (L’ostacolo di Rosamund, Astoria edizioni). Oggi all’estero Margaret Drabble è pressoché sconosciuta, ma in patria i suoi meriti letterari le sono valsi il titolo di Dame Commander dell’Ordine dell’Impero Britannico, e c’è chi dice che per capire cosa significa vivere in Gran Bretagna sia necessario leggere i suoi romanzi. Verrebbe di pensare che sia di questo avviso anche Ian McEwan, che nel suo ultimo acclamato romanzo, Miele,  fa di Margaret Drabble l’autrice preferita della protagonista.

L’ostacolo di Rosamund è la storia di una ragazza che aspetta un figlio a poco più di vent’anni, senza essere sposata, quando agli occhi della buona società inglese stava facendo una brillante carriera accademica (brillante per essere una donna s’intende) e aveva una vita degna dell’invidia dei più – non ultimo perché usciva le sere pari con un uomo e le dispari con un altro. Nel romanzo si scopre che tutto ciò per Rosamund, figlia di una buona famiglia socialista degli anni Cinquanta è un millstone, un peso opprimente.

La storia sorprende per i continui capovolgimenti di punti di vista, per cui il tono del romanzo suscita nel lettore sentimenti contrastanti a distanza di poche righe. Si passa da descrizioni di un realismo angosciante (ore e ore d’attesa negli ambulatori del Servizio sanitario nazionale sentendosi tatuata addosso la “lettera scarlatta” della vergogna) a considerazioni umoristiche tipicamente inglesi. Per giustificare il fatto di vivere da sola in un sontuoso palazzo Rosamund, per esempio, si trova a spiegare che i genitori si sono trasferiti in Africa: “Devono punirsi, capisci. Non possono limitarsi a vivere comodamente. Tutto questo andare in Africa e cose del genere, la gente di solito non le fa, la gente si limita a dire che sì, dovrebbe farle, invece i miei genitori in Africa ci vanno davvero. E a noi figli ci hanno tirati su alla stessa maniera assurda, attenendosi rigidamente ai loro principi, senza mai chiederci dove fossimo stati quando tornavamo a casa alle tre del mattino, mandandoci alle scuole pubbliche, facendoci curare solo dalla sanità pubblica, consentendoci di prendere dei terrificanti accenti cockney, invitando la cameriera a sedersi a tavola con noi e presentandola agli ospiti, insomma tutte le follie di questo stampo”.

Il topos della ragazza sprovveduta, tendenzialmente povera, inguaiata dal mascalzone rubacuori è in tutto e per tutto rovesciato: Rosamund è bella, ma poco importa, intelligente e soprattutto colta (passa i pomeriggi a studiare al British Museum e in questo pare di intravvedere tra le righe l’autrice, laureata a Cambridge e critica letteraria); l’uomo che la mette incinta in un incespicato incontro di una sola notte è invece timido, di successo –  fa l’annunciatore radiofonico – e Rosamund dubita della sua eterosessualità. Dietro ad un malcelato femminismo, la Drabble è però una sognatrice: Rosamund è infatti innamorata di George, a cui non confesserà mai l’accaduto, e Octavia, la bambina che metterà al mondo (pur passando attraverso la fase “comprarsi una bottiglia di whiskey, berla tutta, fare un bagno caldo e sperare di abortire”), darà alla sua vita quel senso originario che trascende le epoche, le carriere, i vizi e le virtù.

Il romanzo, anche 47 anni dopo la sua prima pubblicazione in Inghilterra, non è invecchiato, non solo perché affronta il tema universale della nascita (viene in mente Lettera ad un bambino mai nato di Oriana Fallaci del 1975), ma soprattutto perché è un inno alla libertà del pensiero e dell’azione di chi, come Rosamund, non dimentica mai l’autonomia del proprio ragionare, indipendentemente dai condizionamenti sociali.

Le atmosfere inglesi sono fortemente conservate: la brughiera di Thomas Hardy (più volte citato, insieme a Wordsworth) diventa una Londra difficile, cupa e mondana, nonostante nelle strade, negli ambulatori medici, nei negozi e nei ristoranti che la protagonista frequenta, appaia chiaramente l’acume dell’autrice, precursore dell’ironia che è diventata il marchio di fabbrica di alcuni autori e autrici inglesi contemporanee, una su tutte, Sophie Kinsella.

Valentina Berengo





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