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A che gioco giochiamo?

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Articolo di Valentina apparso su “il Bo” il 9 ottobre 2015.

È mancato da nemmeno sei mesi, John Nash, il matematico che vinse il Nobel per l’economia nel 1994, ma si può scommettere che rimarrà nel ricordo dei più per diversi anni a venire; anche tra i non matematici. E non solo perché Russel Crowe ha vestito i suoi panni nel famoso film A Beautiful Mind – non troppo fedele alla verità dei fatti, – in cui si narrava la vita del celebre professore di Princeton, consulente del Pentagono durante la guerra fredda, famoso, soprattutto, per l’oggetto delle sue ricerche. La fantomatica “teoria dei giochi”.

Non si sa se per il nome accattivante e quasi ossimorico, o perché si è fatta la fama di predire il comportamento sociale dell’uomo in pressoché qualsiasi campo o situazione (dalla biologia evoluzionistica alla psicologia), la teoria dei giochi è conosciuta, almeno sulla carta, anche dal grande pubblico. Pochi però sanno davvero di cosa si tratta.

Innanzitutto, sebbene venga da tutti associata alla figura di Nash, deve essere fatta risalire all’opera di due altri professori di Princeton, di una trentina d’anni più anziani: János Von Neumann e Oskar Morgestern. Il primo, un matematico, nel 1928 pubblicò l’articolo Zur Theorie der Gesellschaftsspiele (Sulla teoria dei giochi di società) in cui dimostrò che nei giochi a due persone “a somma zero” (ossia dove quel che è vinto da un giocatore è perso dall’altro e viceversa) è sempre possibile trovare la strategia (detta “minimax”) che massimizza le vincite (o minimizza le perdite), in funzione delle regole del gioco e delle mosse dell’avversario. L’obiettivo ambizioso che il matematico si poneva era di dimostrare che dietro alle interazioni umane è possibile individuare delle regole imparziali: una sorta di “matematizzazione” delle scienze sociali.

Il passo successivo venne per opera di Morgestern, un economista stavolta, che, ossessionato dai problemi di strategia (celebre l’articolo in cui per illustrare il concetto si rifece all’avventura di Sherlock Holmes in cui l’investigatore cerca di evitare il professor Moriarty in un viaggio da Londra a Parigi) si appassionò del lavoro di Von Neumann.

I due scrissero insieme quella che divenne subito la bibbia della teoria dei giochi: Theory of Games and Economic Behaviour (Teoria dei giochi e comportamento economico, 1944), una sorta di newtonizzazione di Adam Smith, come scrisse il divulgatore Tom Siegfried, intendendo dire che “per i suoi sostenitori questo libro era per l’economia ciò che i Principia di Newton erano per la fisica”. Obiettivo non da poco, in effetti, perché Morgestern e Von Neumann volevano “misurare” le scelte economiche, a partire da comportamenti economici semplificati, in cui tornavano sulla scena il ben noto (e riformulato) concetto di utilità, discusso sin dai tempi di Bentham, e l’innovativa definizione di strategia: ossia una determinata catena di scelte da fare in ogni circostanza per raggiungere l’obiettivo. Il problema veniva trasformato in una matrice e la tesi dei due studiosi, rigorosamente dimostrata per via matematica, era che esistesse sempre una strategia per vincere (ossia per massimizzare l’utilità). Certo il loro approccio richiedeva delle semplificazioni strutturali, di cui si dicevano consapevoli :“in tutte le scienze il grande progresso giunse quando, studiando problemi che erano modesti al confronto degli scopi che ci si proponeva, si svilupparono metodi che si riuscivano ad ampliare sempre più”. A differenza delle loro ipotesi semplificative, nella realtà i problemi sociali o economici non sono quasi mai di tipo “a somma zero” e tantomeno sono sempre “cooperativi” (ossia non è detto che in presenza diversi giocatori, questi si coalizzino in squadre).

Furono questi limiti, forse, la ragione per cui, all’epoca, la “matematica per l’economia” offerta da Morgestern e Von Neumann lasciò indifferenti gli economisti. Il superamento di quegli stessi limiti decretò il successo del lavoro di John Nash: la sua teoria infatti “funziona” anche in presenza di più giocatori che agiscono indipendentemente (giochi tecnicamente “non-cooperativi”) secondo l’adagio abbastanza rappresentativo del mondo reale: mors tua vita mea, e soprattutto prende in considerazione che la sconfitta di uno non debba necessariamente corrispondere alla vittoria dell’altro (o degli altri). In un articolo tratto dalla sua tesi di dottorato, Nash nel 1950 espone il suo celebre teorema dell’equilibrio (noto poi come equilibrio di Nash) che fa suo un principio cardine di molte scienze matematico-fisiche: l’idea è che un sistema abbia sempre un punto di equilibrio, cioè verso cui tende e si stabilizza. Nel caso della teoria dei giochi, questo è tale se – testualmente –:“la strategia di ciascun giocatore massimizza il suo guadagno se le strategie degli altri sono tenute fisse”.

Un esempio affascinante cui applicare l’equilibrio di Nash è il dilemma del prigioniero, ispirato ad un racconto, di Poe stavolta (Il mistero di Marie Roget), che fu trattato per la prima volta da Tucker, uno dei professori di Nash a Princeton: la polizia ha preso due malviventi colpevoli di un reato minore ma per poterli accusare di un reato maggiore ha bisogno che almeno uno dei due confessi. Se nessuno dei due tradisce l’altro saranno entrambi condannati ad un anno di prigione, se uno dei due confessa verrà liberato e all’altro toccherà una pena di cinque anni, se entrambi confessano si beccheranno tre anni ciascuno. La matrice di payoff (guadagno) è quella che segue:

A     ///    B B non tradisce B tradisce
A non tradisce 1,1 5,0
A tradisce 0,5 3,3

L’equilibrio di Nash è costituito dalla coppia stabile di scelte dettate dall’interesse personale: indipendentemente da cosa farà l’altro, a ciascun prigioniero conviene defezionare, ossia tradire, nella speranza che l’altro non lo faccia. È la strategia per cui nessuno dei due giocatori è incentivato a cambiare la propria, anche se, evidentemente, per il gruppo (i due giocatori nell’insieme) è la soluzione più gravosa (sei anni complessivi di carcere, sommando quelli dell’uno e dell’altro, contro i due o i cinque delle altre strategie).

In un caso reale non si può sapere cosa succederebbe, quali sarebbero le motivazioni che spingerebbero i singoli a scegliere cosa, è chiaro: qualora, per esempio, inaspettatamente, cooperassero, l’equilibrio di Nash individuerebbe però, in ogni caso, una tensione interna alla scelta, e pertanto l’approccio delineato dal matematico si rivela, comunque, uno strumento capace di dare indicazioni. Non è un caso che Nash, per quest’intuizione giovanile, nel 1994, quasi mezzo secolo dopo, sia stato insignito del Nobel.

E non è un caso che, nel 2005, lo stesso premio sia stato dato a due pionieri, ciascuno per conto proprio, delle applicazioni della teoria dei giochi nei più svariati ambiti (tra cui la biologia e le scienze sociali): Thomas Schelling e Robert Aumann. E, da ultimo, non è un caso che, della teoria di giochi, si parli così tanto, non solo nei dipartimenti universitari.

Valentina Berengo





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