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Foto da Flickr: Songkran – CCC BY-NC-SA 2.0

di Luca Leone

Cercando sul web pareri di coloro che hanno letto il romanzo “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” è facile imbattersi in esternazioni che vanno ben oltre il semplice apprezzamento. In tanti non solo lo amano, ma sono addirittura riconoscenti alla persona di Christiane F., che ha avuto il merito di scriverlo: chi per aver aperto gli occhi sull’importanza di rispettare il proprio corpo, chi per aver preso consapevolezza della pericolosità delle dipendenze, chi per essere stato indotto alla decisione, a pagine ultimate, di modificare la propria condotta verso i figli. Tuttavia, la quasi maggioranza, in maniera neanche troppo inaspettata, dedica un posto privilegiato nel proprio scaffale a questo libro per essere stata indottrinata al culto di David Bowie.

Nella particolare fase della sua esistenza in cui aveva trovato modo di reincarnarsi da Ziggy Stardust a Duca Bianco (per chi non lo sapesse Bowie “rinasce” in diverse versioni di se stesso), l’artista inglese portò in giro per il mondo l’album Station to Station in quello che fu chiamato Isolar tour ma anche White Duke Tour e White Light Tour. Indipendentemente da quale sia la denominazione più efficace, nel concreto si tratta di un giro del globo in due mesi e mezzo, dal 2 febbraio al 17 maggio 1976, per un totale di ben sessantasei (!) date.

Il 10 aprile 1976 il Duca ormeggia nella sezione ovest della Berlino pre-abbattimento del muro, per un concerto nella Deutschlandhalle, il trentacinquesimo del tour, il terzo di sei in terra tedesca.

La Deutschlandhalle è (o meglio “era”, dato che è stata abbattuta nel 2011) un’arena gigantesca, talmente grande da consentire all’aviatrice Hanna Reitsch di volarci dentro in elicottero in una dimostrazione del 1938. Qualcuno  la descriverebbe come la declinazione nazista del principio geometrico dell’architettura del rinascimento: rettangolare, spigolosa e soprattutto, tanto grigia, come il cemento. Fu inaugurata proprio da Adolf Hitler nel 1935, con tanto di adunata di fanatici vestiti all’ultima moda del Reich. Per la cronaca, ospitò diversi eventi sportivi, soprattutto di pugilato, nelle famose Olimpiadi del 1936. A distanza di neanche vent’anni, smaltiti gli ultimi strascichi della guerra, venne riconvertita nel principale impianto per eventi musicali – e non – di tutta Berlino ovest, continuando a fungere da centro per lo sport. Si passò, insomma, dai diecimila in divisa che alzavano il braccio sincronicamente per inneggiare al regime, alle libere e coloratissime folle adoranti della musica più bella dell’epoca contemporanea: quella dei Queen, dei Pink Floyd, di Tina Turner e di David Bowie, appunto, in quel 10 aprile del ‘76.

Proprio quel giorno, immersa nella folla, in un punto non precisato della platea, c’era anche una ragazzina di quattordici anni, assieme al suo amico Frank, per gli amici “Pollo”, per gli amici meno generosi “cadavere”.

La ragazzina, che aveva ricevuto in regalo dalla madre i biglietti e conosceva Bowie grazie ai vinili che il compagno della donna le regalava, si chiamava Christiane Vera Felscherinow, colei che negli anni ottanta diventerà la tossica più famosa della Germania dopo aver scritto “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”. Il libro porta una delle rare testimonianze reperibili su quel concerto, cui fa brevemente accenno, ma in modo significativo (da pagina 87 a pagina 91).

Tutto inizia con la proiezione della scena del famoso occhio tagliato dal rasoio, dal film muto “Un Chien Andalou” di Luis Buñuel del 1928, che dice molto sulla singolarità artistica del contesto. La band che accompagna Bowie è già schierata: due chitarristi, un bassista, un batterista e un tastierista. Del Duca ancora nessuna traccia, temporeggia dietro le quinte. Si inizia a sentire una sequenza di suoni dal ritmo crescente, che ricorda decisamente il respiro affannoso di un treno in corsa: è l’apertura di Station to station, il brano dell’omonimo album.

L’eccitazione è al massimo, la band suona prima piano, poi sempre più convulsamente, i proiettori posizionati sul palco lanciano fasci di luce bianca (ecco perché il tour viene denominato “white”) quindi la band rallenta leggermente… e fa la sua entrata in scena Bowie. Veste i suoi nuovi panni da Duca Bianco (ancora, “white”): è elegante, raffinato, un “aristocratico” del palco. Si presenta così al pubblico ad occidente del muro, cantando i primi versi: “Il ritorno dell’Esile Duca Bianco, che lancia dardi, negli occhi degli innamorati”.

Christiane sta vivendo quello che nella sua immaginazione considera il giorno più bello della sua vita (pag.87), ascolta il brano in estasi senza bisogno d’ingerire una qualsiasi sostanza calmante o eccitante (pag.89), come invece ha fatto tutti i giorni da più di un anno. La canzone è, nella maniera in cui può essere obiettivo un parere personale, “obiettivamente meravigliosa”. Il titolo è una perfetta sintesi del contenuto: allude alle quattordici stazioni della Via Crucis di Cristo nel cammino verso la Crocifissione. È molto più lunga della durata media di un brano, nella versione registrata copre ben dieci minuti e quindici. È un’esperienza intensa ascoltarla, ma anche una liberazione catartica arrivare alla fine, il sollievo di essere scampati alla sua bellezza.

Christiane continua ad essere abbagliata da quanto accade: dalle luci, dai ragazzi che le stanno vicino, da Bowie stesso. Poi però, arriva il ritornello, che comprende quel fatale “It’s too late”. Cantato senza tristezza, né paura, quelle semplici parole sconvolgono la giovane (pagg. 89-90-91).

Il concerto, anche se non è specificato nel libro, va avanti. Ascoltando l’unica registrazione integrale disponibile della prima data del tour al Pacific Coliseum di Vancouver, e ipotizzando che la scaletta sia rimasta la stessa nel corso dei mesi, sappiamo che a “Station to station” seguì “Suffragette City“, tratta dall’album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars del 1972. Poi “Fame“, composta insieme a Carlos Alomar e John Lennon, da tradursi come Fama“, quella stessa che Bowie riuscirà a malapena a gestire rischiando più volte di rimanerne sopraffatto. Si va avanti senza sosta con “Word on a wing“, poesia delle più pure, quasi una preghiera: “Signore, mi inginocchio e ti offro, la mia parola in volo, e sto provando in tutti i modi a rientrare, nel tuo schema delle cose”.

Nell’arena poi si suona “Stay”, e altre dieci canzoni, tra cui “Life on Mars?”, probabilmente una delle tracce più “coverizzate” della storia, e The Jean Genie” in chiusura di uno show di circa un’ora e venti. Nella testa di Christiane, però, rimane sempre, battente, quel maledetto verso, “It’s too late“, durante tutta quell’ora e venti, ma anche fuori, nel parcheggio della Deutschlandhalle.

Per liberarsene, o almeno farlo evaporare temporaneamente, decide di fare il grande passo, assecondando paradossalmente l’arrivo a quel tanto temuto punto di non ritorno. Si procura una bella cifra con la scusa di essere a corto di spiccioli per la metro, e acquista la prima dose di eroina, la minaccia bianca da cui si era tenuta lontana “sostituendola” fino a quel momento con droghe meno pesanti.

È l’inizio del tracollo, del suo sopravvivere finalizzato soltanto a reperire e consumare eroina. Il suo libro e la sua vita perdono ogni traccia d’innocenza, di vera tenerezza: non c’è più spazio per la scuola, per la famiglia e per la musica. Impossibile imbattersi ancora in alcuna citazione di Bowie, né di un qualsiasi altro cantante o personaggio, o di un semplice fatto attinente ad un argomento che non sia la dipendenza. Il lettore è soffocato dalla sensazione che da lì in poi, sia davvero, troppo tardi.

Ascolta l’approfondimento sul famoso concerto di Berlino dalla viva voce di Luca:




1 Comment:

  1. […] Sapevi che David Bowie è stato citato nel libro “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”? […]


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