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Articolo di Valentina apparso su “il Bo” il 26 aprile 2013 sulla filmografia e sulla narrativa inglese.

Con la notizia della morte di Margareth Thatcher, poche settimane fa, la memoria di molti è andata alla pellicola di Phyllida Lloyd, uscita l’anno scorso, e alla bravura di Meryl Streep che ne portava in scena la fragilità e lo smarrimento degli ultimi anni, segnati dell’alzheimer. La persona, prima che la vicenda politica. Ma prima di “The Iron Lady”, film poetici come “Billy Elliot”, del 2000, hanno invece trovato nell’epoca thatcheriana lo sfondo perfetto per raccontare la fiaba di qualcun altro: nella fattispecie quella del figlio di un minatore, in sciopero proprio contro la politica di dismissione delle miniere fortemente voluta dal primo ministro, che si scopre ballerino e trova la forza per superare il pregiudizio dei compagni, del fratello, del papà stesso. Il quale ha per parte sua ben altro a cui pensare visto che sta perdendo il lavoro e gli manca solo un figlio sulle scarpette da punta.

Un film nel quale sono tutti buoni (commovente la scena in cui Billy legge alla maestra di danza la lettera che la madre gli ha scritto per i suoi 18 anni prima di morire), perché “lei” è “la” cattiva (ogni fiaba che si rispetti deve avere un cattivo), impersonata dalle schiere di poliziotti con l’elmetto e lo scudo, dalla miseria in cui vive la povera gente, dalla mancanza di prospettive di tutti coloro che non nascono nei quartieri alti o, come Billy Elliot, con un talento speciale, ma sono delle semplici persone. Lo stesso sfondo sociale di “Full Monty”, il film del 1997 che racconta la storia di sei disoccupati di Sheffield, che si reiventano spogliarellisti: la commedia vince l’Oscar, la realtà che mette in scena lascia l’amaro in bocca. E più taglienti delle immagini sono state con Margaret Thatcher le parole, perché il thatcherismo è andato anche sui libri, in grandi opere di narrativa (Money, di Martin Amis è stato incluso dal Time tra i 100 migliori romanzi di lingua inglese dal 1923 al 2005), trasfigurato nei personaggi di cui questi libri hanno raccontato.

Magistrale nella sua disamina degli anni Ottanta inglesi in “What a carve up!” (La famiglia Winshaw, Feltrinelli 1995) lo scrittore di Birmingham Jonathan Coe, più famoso in Italia che in patria – forse proprio perché specializzato in grandi affreschi sociali del suo paese e si sa che non è facile farsi portavoce della verità di un’epoca lì dove le cose succedono. Coe in “La famiglia Winshaw” racconta le saga di una famiglia di politici, banchieri, giornalisti, imprenditori intriganti e arrivisti che incarnano ciascuno il peggio del periodo storico che stanno vivendo – gli anni Ottanta – alla cui definizione contribuiscono quotidianamente. È come se il liberismo e la spregiudicatezza del primo ministro (la Thatcher è citata più e più volte nel testo, mai attribuendovi giudizi di merito però) avessero contaminato la società civile e trovassero nei personaggi di Coe una sorta di personificazione.

Hilary è una giornalista disposta a tutto pur di far carriera e crede fermamente nella potenza della deregulation televisiva: la gente deve poter vedere in tv quello di cui ha voglia, non per forza noiosi programmi culturali. E il cugino Henry è un parlamentare eletto tra i laburisti ma vota sempre per i conservatori ed è segretamente innamorato del primo ministro, conosciuta ad Oxford ai tempi dell’Università. E che spiega le proprie idee con parole che fanno ironicamente il verso a quelle del primo ministro: “Ho anche deciso di condurre una severa battaglia contro la parola ospedale. Ormai vietata in sede di dibattito, d’ora in poi sarà sostituita con unità di distribuzione. Questo perché in futuro il loro unico scopo sarà di distribuire servizi che verranno acquistati dalle autorità sanitarie e dai medici generici dotati di fondi, attraverso dei contratti negoziati. L’ospedale diventa un negozio e un’operazione chirurgica una merce, con un sacrosanto prevalere delle normali consuetudini in atto nel mondo degli affari: accumula e poi vendi a buon prezzo. La meravigliosa semplicità di questa idea mi sbalordisce.”

C’è poi Dorothy, allevatrice intensiva di qualsiasi animale possa diventare cibo redditizio, che si lamenta perché negli USA si sta decidendo di eliminare l’utilizzo dei sulfamidici nei maiali sani, perché sono cancerogeni. Poi vengono tutti gli altri, nessuno si salva, con un vezzo od un vizio che certo non gli fa onore.

Quel che negli anni Ottanta di Coe sembrava essere una promessa, se la strada non fosse cambiata,  oggi è forse, per tanti versi, una realtà (la tv spazzatura, la sanità solo per chi ha soldi, il cibo contaminato ecc.), ma i tempi sono ancora troppo ravvicinati per un giudizio distaccato (se mai è possibile) su quelle vicende; in attesa di un nuovo Hobsbawm che ne possa tracciare un profilo compiuto tra una cinquantina d’anni, accontentiamoci di leggere Coe.

Valentina Berengo

 





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