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Articolo di Valentina apparso su “il Bo” il 23 ottobre 2013 a proposito del libro “La scienza del giocattolaioDavide Coero Borga (Codice edizioni, 180 pagine).

Quando ai primi del Novecento gli spettatori assistevano a teatro alla magia dei giocattoli che prendono vita ne Lo Schiaccianoci di Ciajkovskij come ne La bottega fantastica di Rossini, o leggevano Il soldatino di piombo di Andersen, mai avrebbero pensato che, neanche un secolo dopo, questa sarebbe diventata la loro natura abituale: bambole parlanti, robot che si trasformano, macchinine che corrono e peluches che respirano hanno accompagnato i bambini nella crescita dagli anni Ottanta in poi.

Ma oggi c’è di più, molto di più: in epoca di Iphone e realtà virtuale avrebbero potuto i giocattolai (leggi: le multinazionali che producono giocattoli) accontentarsi di bambole di pezza e mattoncini componibili? Certo che no, e i casi citabili sono moltissimi. Ad analizzare e raccontare, in lungo e in largo, l’evoluzione dei giocattoli e il loro rapporto con la scienza, la tecnica e la società che li propone ai suoi bambini è un libro di Davide Coero Borga, La scienza del giocattolaio, recentemente pubblicato da Codice Edizioni.

La Lego, per esempio: nata nel 1934, nel 2006 mette sul mercato Mindstorms NXT, una linea di prodotti costituita da mattoncini programmabili e da pezzi elettronici e meccanici come sensori di contatto, di luce, di suono, ad ultrasuoni, accelerometri, motori e giroscopi, che permettono l’assemblaggio di veri e propri robot funzionanti. In una settimana, si promette, il bambino (con il suo papà- è chiaro-) potrà dar vita ad un cagnolino che corre a prendere la palla lanciata dal padrone e gliela riporta. In internet si creano immediatamente delle community di nerd (i ragazzini a volte sono ottimi programmatori, persino ottimi hackers) che condividono stringhe di codice per programmare movimenti ben più elaborati di quelli riportati nelle istruzioni della casa madre.

Per dar vita al progetto la Lego ha coinvolto nientemeno che il MIT, il celebre Massachussetts Institute of Technology, nella persona di Seymour Papert, ma non è stato l’unico risvolto accademico del mattoncino 2.0: i ricercatori dell’università di Cambridge hanno infatti realizzato un modulo Mindstorms che fosse in grado di gestire esperimenti di laboratorio, di modo da sgravarsi degli aspetti meramente operativi della ricerca e regalare tempo prezioso al lavoro intellettuale. Perché il mattoncino Lego? Perché costa di meno che realizzare un sistema ad hoc, in termini di tempo e danaro, e funziona egualmente bene.

Solo un gioco dunque? Niente affatto. Come il caso della famigerata Barbie, nata dalla mente della moglie del “signor Mattel” (all’anagrafe Elliot Handler) quando, dopo la guerra, durante una vacanza in Germania, ebbe occasione di leggere le strisce a fumetti sulla Bild – Zeitung di Lilli, una bella bionda formosa, che di lì a poco divenne la Barbie che conosciamo. Porta il nome della figlia di Elliot e Ruth Handler, Barbara (Barbie), questo modello di donna emancipata, che insegna alle bambine a passare dal ruolo di massaia e mamma (come quando giocano col Cicciobello) a quello di protagoniste della propria vita: quasi una femminista ante-litteram. Barbie è stata paleontologa, atleta olimpica, chirurgo, vigile del fuoco, persino astronauta nel 1965, quattro anni prima che Armstrong sbarcasse sulla luna. Eppure ha fatto arrabbiare codazzi di mamme, che la incolpavano di incarnare un ideale fisico deliberatamente maschile: troppo seno, troppi fianchi, vitino di vespa e niente mutandine. La Mattel nel 1997 decide di porvi rimedio e “umanizza” le fattezze di Barbie, non dimenticando (questa volta) di tatuare sul corpo della bambola gli indumenti intimi.

Ci pensa però Greenpeace, nel 2011, a riportare la Barbie nell’occhio del ciclone mediatico: diffonde infatti un video virale in cui il suo fidanzato storico, Ken Carson, viene messo a conoscenza del fatto che Barbie contribuisce alla deforestazione della foresta pluviale indonesiana, perché per il suo packaging usa la carta APP (Asia Pulp and Paper). Ken ne è inorridito: “io la lascio!” esclama, e Greenpeace invita tutta la popolazione a seguire il suo esempio, non risparmiando alla casa produttrice una manifestazione presso la sede principale con tanto di gigantografie appese all’edificio della casa produttrice. La Mattel si arrende, a seguito di ben 300.000 richieste di produrre packaging eco – sostenibile da parte dei consumatori, e promette di utilizzare solo carta certificata FSC.

Dalle applicazioni pratiche ai risvolti sociali, i giocattoli si fanno latori dei bisogni di un’epoca. Per esempio? Se oggi è raro vedere ragazzini tirare sassi con la fionda, nel privato del proprio Ipad molti, anche adulti in verità, sfogano la propria aggressività giocando ad Angry Birds, un videogioco in cui con una fionda virtuale si scagliano uccellini rossi (virtuali) contro maialini verdi (virtuali) allo scopo di abbatterli.

E che ne è del caro, vecchio, intramontabile aquilone? Nell’aprile del 2012 il Public Laboratory for Open Technology and Science ha presentato il balloon mapping toolkit: un pacchetto fai da te per fissare una telecamera a un aquilone e contribuire alla mappatura aerea della terra (anche se Google fa sapere di non essere interessata).

Il caso della Costa Concordia, poi, può aver fatto venire in mente a chi era bambino negli anni Settanta la famosa sabbia magica, la sabbia che non si bagna: quando la tiri fuori dal secchiello pieno d’acqua è incredibilmente asciutta. L’invenzione nacque infatti mentre si cercava un elemento flocculante che permettesse di far precipitare il petrolio in caso di versamenti in mare aperto, ma i costi di produzione risultarono troppo alti e ne venne fuori un giocattolo.

I casi come questo sono molti, come il libro racconta, ma le cose vanno anche viceversa: spesso succede che a partire dalle scoperte scientifiche si realizzino giochi per avvicinarle ai bambini. Fu il caso del “kit radioattivo” del Piccolo Chimico, una sorta di modello deluxe da 50$ (oggi tra i collezionisti vale più di 6.000 euro) che metteva sul mercato dei giochi per bambini degli anni Cinquanta campioni di piombo 210, rutenio 106, zinco 65, polonio 210 e boccette di polvere di uranio. Ripensandoci oggi, testimonia della grande fiducia dell’epoca per le potenzialità dell’atomo, ma ci fa venire ben più di un brivido retrospettivo…

Che dire? Speriamo che non si scopra, tra cinquant’anni, che anche i giochi moderni possono far male. Intanto dall’Inghilterra veniamo a sapere che il videogame Wimbledon della Wii, con cui si gareggia a tennis tenendo in mano un simulatore di racchetta, ha causato in un anno il 30% di lussazioni alla spalla in più.

Valentina Berengo





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