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Recensione di Valentina apparsa su “il Bo” il 2 agosto 2013 de “I racconti dell’errore” di Asor Rosa (Einaudi editore, collana Supercoralli, 215 pagine).

Di cosa è fatta l’esistenza? Quale il suo fine ultimo, ammesso che ce l’abbia? E come riesce l’essere umano (nella fattispecie, maschio) a giungere alla fine dei suoi giorni terreni, nonostante sia dotato di pensiero?

È quest’ultima la domanda che sembra emergere dal più recente libro di Alberto Asor Rosa, I racconti dell’errore”, come l’interrogativo più dolorosamente e ironicamente indicativo della sorte umana. L’autore mette insieme infatti un sestetto di vicende in cui da subito appare evidente che l’errore cui fa riferimento il titolo del volume, altro non è che un’aberrazione del pensiero dei protagonisti, il più delle volte legata al senso della vita e all’incombere della morte.

C’è infatti Aristide Galeoto che non fa altro che pensare che morirà, come se “la sua vita fosse sempre sul punto di finire”, o Giovanni Sollicciano che la morte la mima in vita attraverso una tecnica di rallentamento del battito cardiaco, una sorte di svenimento controllato da cui trae un forte sollievo emotivo, incurante peraltro di spaventare tutti coloro che hanno la sventura di presenziare alla performance. Asor Rosa ci fa incontrare poi Antonio Feliciano, detto Tonino, che “non aveva mai pensato che avrebbe potuto un giorno invecchiare” e si era ben premunito dacché gli potesse capitare di essere smentito (in casa non teneva specchi, eccezion fatta per uno di pochi centimetri per radersi); così, quando una procace fanciulla gli cede il posto sull’autobus, Tonino fa dell’invecchiamento un’ossessione.

Oppure c’è Trippoli, al secolo Francesco Ciaramella, che contro ogni pronostico del destino (è il figlio cadetto di una famiglia di contadini da generazioni) diventa un raffinato intellettuale e dedica la vita intera allo studio e all’insegnamento dei classici greci, quasi annullandovisi, fino al momento in cui il brivido dell’esperienza diretta del vivere gli si presenta grazie all’incontro con una studentessa particolarmente dotata.

Quel che non va, il già menzionato errore, pare suggerirci Asor Rosa, è una sorta di cortocircuito del pensiero, perché i protagonisti di queste storie, invariabilmente maschi, anziché agire, pensano. E quando agiscono lo fanno in risposta ad uno stimolo cerebrale, ma come fossero in cerca di zittire la voce che gli crea tormento e non per dare seguito ad un qualche piano programmatico. Dopo il fallace tentativo di annullarsi, che hanno in comune (“[Aristide] invece di combattere l’istinto di morte, scelse di renderlo inoffensivo…facendosi…] quando meglio gli riusciva, invisibile”, “[Giovanni] sdraiato in terra […] stava laggiù da solo e nessuno poteva entrargli dentro, disturbarlo, pretenderne l’attenzione, rimproverarlo o sgridarlo”, e così via), ricorrono quindi a quella che pare essere per tutti una passione: le donne, e il sesso (seppur virtuale, come per Trippoli, invaghito di un’angelica studentessa che declama in greco). Ma il luogo comune per cui la passione carnale è sinonimo di vita e vitalità, e quindi antidoto contro i pensieri mortiferi, è presto sfatato: l’autore rivela immancabilmente al lettore come neppure questo rimedio sia di definitivo giovamento ai suoi personaggi.

Intravvediamo infine una chiave di lettura quando incontriamo, al quarto racconto, Gilda, la cagnolina di Umbertino d’Avanzo, cassiere di banca in pensione dopo 38 anni di onesto e rigorosamente routinario lavoro. Quando l’uomo decide di portarsi a casa l’animale, venduto insieme a molti altri abbandonati ai bordi di una strada, la sua vita prende finalmente un senso, e Umbertino conosce forse per la prima volta il piacere (“tornò ad avvertire un brivido piccolo piccolo che gli correva lungo la schiena; ma invece di preoccuparsi, rinunciò a farci caso”). Gilda fa provare all’uomo una gioia nuova, che però non è destinata a durare, perché la cagnolina dopo solo un anno e mezzo si ammala e muore. E mentre lei esala l’ultimo respiro Umberto la guarda e pensa (“gli umani non possono fare a meno di pensare anche quando non serve più a niente”), per poi scoppiare nel primo pianto a dirotto della sua vita.

Dove nulla può il pensiero, né la foga della passione carnale o dell’amore, può un animale, la condivisione con il quale è capace di portare l’uomo alla metamorfosi, avvicinandolo all’emozione più vera, al pieno godimento della vita, fatta di aria, di sole, di terra, di fame e di sete, e non di elucubrazioni da cui non riesce ad uscire. Questa la provocazione dell’autore, che sceglie come voce narrante del suo ultimo racconto, come già in Storie di animali e di altri viventi, un animale, in questo caso un cane. Un cane che sa pensare e anche molto bene, essendone pure consapevole, non come quel suo padrone di cui racconta lucidamente le sofferenze, che “a pensar troppo corre il rischio di sapere chi è ma al tempo stesso di non sapere se c’è”. La verità che il cane palesa è lapalissiana: “lui [l’uomo] ha più pensiero; ma io [l’animale] ho più fiuto. Guardatevi intorno: in nove casi su dieci serve più il fiuto del pensiero”. Ma non basta: nulla viene risparmiato all’umana specie, né alcuna superiorità concessa. “Il mondo” fa dire l’autore al cane “non si divide, come comunemente si dice […], fra umani ed animali. Il mondo si divide fra animali e bestie. Ed è ormai assodato da un’esperienza plurisecolare che fra gli umani ci sono molte più bestie che fra gli animali […]. Gli umani, in millenni, hanno fallito tutte le prove che gli erano state consentite benevolmente dalla sorte”. E se a dirlo è un pensatore del calibro, e della sensibilità, di Asor Rosa – ancorché sotto le mentite spoglie di un cane – non resta che crederci.

Valentina Berengo





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