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Ai nostri microfoni Monica Pareschi, traduttrice di molti romanzi di autori contemporanei così come di classici. Noi le chiediamo qualcosa di Doris Lessing di cui, tra il resto, ha tradotto Il sogno più dolce (Feltrinelli editore, collana I narratori, 456 pagine) che ti piace se sei fatto così:

Genere: maschio o femmina

Età: dai 25 anni in su

Carattere e stato d’animo: Sei una persona con i piedi per terra, ogni cosa un tempo, uno spazio, un senso e uno scopo. Sei un ottimo confidente e in questo momento della tua vita hai voglia di leggere un libro lungo che ti faccio immergere in un mondo privato che non sia il tuo

Libri piaciuti: La brava terrorista di Doris Lessing, Una vita come tante di Hanya Yanagihara e La banda dei brocchi di Jonathan Coe

Premi play e ascolta l’intervista (o scaricala qui):

Se invece preferisci leggere, eccoti accontentato:

Hai conosciuto Doris Lessing, anche solo epistolarmente? E se sì, che ricordo ne hai? E più in generale ancora, ti chiedo: per te, come traduttrice, è fondamentale venire in contatto con gli autori che traduci oppure no?

Nel caso di Doris Lessing, l’ho incontrata un paio di volte, proprio fisicamente. Una volta a Torino al Salone del libro ho passato una decina di minuti con lei prima di una presentazione, e questo accadeva prima che vincesse il Nobel. Il mio ricordo di lei è dato intanto dall’impatto fisico molto forte, perché lei era una donna con un viso molto caratteristico, che tutti i suoi lettori, e anche forse chi non la conosce, hanno in mente: con lineamenti molto forti. Poi mi ricordo la sua testa, un po’ da imperatore romano; però era nel complesso molto piccola e quindi c’era un contrasto un po’ strano dato dalla sua figura molto autorevole e allo stesso tempo piccolina, un po’ dimessa, e con un modo di fare molto naturale ma anche molto severo, molto austero. Quando poi è morta un blog letterario mi ha chiesto di scrivere un pezzo: io l’ho scritto e ho raccontato la storia del nostro incontro.

 

Avete parlato dei suoi libri in quell’occasione?

Sono stati pochi minuti, poi io ero una giovane traduttrice anche piuttosto intimidita. È vero che lei ancora non aveva vinto il Nobel, però insomma, la Lessing rappresentava e rappresenta qualcosa all’interno del mondo letterario non solo di iconico… lei è stata suo malgrado, oltre che un personaggio letterario del peso che sappiamo, anche un’icona del femminismo. Suo malgrado perché lei non ha mai accettato di essere chiamata femminista, non si è mai ufficialmente dichiarata tale. Però sicuramente era una donna che ha fatto scelte per i suoi tempi assolutamente inedite, molto forti: ha lasciato un marito e due figlie in Rhodesia, subito dopo la seconda guerra mondiale ed è andata a Londra per iniziare una carriera di scrittrice, perché quello era il centro letterario per chi scriveva in lingua inglese. Sicuramente incontrarla ha avuto su di me un impatto molto forte. Abbiamo parlato un po’ di libri, dei suoi libri, ma anche di cose assolutamente quotidiane come i suoi gatti…

Stavo per chiedertelo! Anche io come lei sono una gattara… Anche io, e ho amato molto il libro in cui racconta dei suoi gatti: Gatti molto speciali

 

In generale gli autori che traduci li incontri, o li contatti mentre traduci? È possibile, oppure voi traduttori vi dovete arrangiare?

È possibile, certamente, a volte capita. Intanto devono essere autori viventi. Ho tradotto una buona parte di autori classici, quindi ovviamente a quel punto sei da solo con il testo. Nel caso di autori contemporanei può capitare. A volte è un incontro anche solo epistolare, nel senso che ci sono problemi all’interno del testo che possono essere risolti contattando l’autore chiedendogli direttamente un parere o comunque una spiegazione, a volte no. A volte gli autori gradiscono questo tipo di contatto. altre volte sono meno disponibili. Insomma è tutto piuttosto flessibile. Poi nel caso di autori di successo, in occasione di fiere, del Salone del libro o a Mantova [al Festivaletteratura] mi è capitato di incontrare qualche autore e di qualcuno sono diventata anche buona amica. Io ho una mia autrice ‒ mia è una parola che noi traduttori usiamo (il mio autore) ma è da prendere con le pinze [ride] ‒ che io abitualmente traduco per Einaudi, Kim Echlin, che a questo punto è una delle mie migliori amiche. A volte accade a volte no…

 

Leggevo su facebook un post in cui dicevi che voi traduttori lavorando imparate cose di tutti i tipi. Ogni tanto leggo che ti domandi cose piuttosto bizzarre che probabilmente appartengono al libro che stai traducendo… Ci sono degli aneddoti della scrittura di Doris Lessing o della tua avventura nel tradurla che puoi raccontarmi? che ti sono rimasti impressi?

Questo libro l’ho tradotto parecchio tempo fa come sai, quindi è sicuramente possibile che io abbia trovato dei nodi, dei problemi, forse qualcosa anche di strambo che magari varrebbe la pena di raccontare, ma in questo momento non me lo ricordo. Ho poi tradotto altri suoi testi, ma non ho il ricordo di una scrittura particolarmente difficile dal punto di vista interpretativo: è una scrittura piuttosto piana, molto legata al mondo pragmatico, al mondo reale, e non la ricordo come una scrittura che mi abbia creato problemi di interpretazione.

 

E secondo te quanto perdiamo noi lettori che leggiamo in traduzione?

Questa è una domanda che ribalterei, nel senso che è certamente vero che qualcosa si perde, ma la vedrei anche in termini contrari: di arricchimento, più che di perdita. Se noi pensiamo al testo come a una partitura, allora esiste un Bach suonato da Pollini ed esiste un Bach suonato da Benedetti Michelangeli. E possiamo pensare che entrambe le esecuzioni in un qualche modo ci portino verso la realtà della partitura, o del testo della musica, o del testo letterario. Quindi una traduzione, se è una buona traduzione, è una vita ulteriore del testo, è qualcosa che non esisterebbe ovviamente senza il testo, però è anche qualcosa che aggiunge e quindi non mi viene tanto di parlare di perdita… qualcosa sicuramente si perde ma qualcosa si acquista.

 

Infatti ti vorrei chiedere anche in che relazione devi porti nei confronti del testo che traduci, cioè lo devi fare in qualche misura tuo? Il sogno più dolce è diventato un po’ tuo mentre lo traducevi?

Questa è una domanda un po’ difficile. Sicuramente c’è un movimento di appropriazione nella traduzione. Deve essere secondo me molto controllato, nel senso che la capacità che si chiede a un traduttore è una capacità mimetica. Una mia collega dice: «siamo le scimmie degli autori» e in effetti devi fare un po’ verso all’autore, non puoi ovviamente appropriarti del testo al punto di scriverlo e riscriverlo con parole tue e solo tue. È sempre un gioco sottile, molto dialettico, di immedesimazione, e a volte anche di libertà, che però deve essere controllata da una certa coerenza. Una traduzione secondo me è bella, è valida, a volte può permettersi qualche libertà, se però non tradisce non solo il testo, ma anche se stessa. Cioè ci deve essere una coerenza interna che poi ovviamente restituisce il testo e lo tiene in sé.

 

Ho visto che di recente Feltrinelli ha fatto tradurre nuovamente Il dottor Zivago e mi sono domandata quanto le nuove traduzioni possano rendere dei libri classici tu ci hai raccontato che traduci molti classici più avvicinabili a noi lettori del 2020 quasi. Secondo te è un’opportunità in più che viene data al testo quella di essere tradotto con un linguaggio più vicino quello che è il nostro di oggi?

Sicuramente, nel senso che la traduzione è, in fondo, una lettura del testo: una lettura molto profonda, e un lettore del 2018, o del 2020 come dici tu, legge un classico con occhi e cervello e animo completamente diversi, e legati al tempo in cui vive, rispetto a quelli dei lettori del momento in cui il testo è stato scritto e poi tradotto. Per fare un esempio anche un po’ banale lo Shakespeare dei Romantici era una cosa completamente diversa da quello che è stato in seguito, o prima. Ogni tempo legge con occhi propri, e quindi anche il traduttore odierno vedrà in un testo classico qualcosa che magari trent’anni o quarant’anni fa non era stato visto, o era stato visto in altro modo. E la lingua della traduzione è deperibile. Il testo, quello originario, rimane lì, l’interpretazione del lettore, quindi anche la lingua della traduzione, è qualcosa di fluido: è molto influenzata dal periodo in cui si fa.

 

Ancora una cosa: Doris Lessing, l’hai detto anche tu, ha vinto il premio Nobel ed è considerata “un mito”: noi già la immaginiamo come un’autrice classica anche se è vissuta fino a poco tempo fa. Tu che traduci autrici classiche della letteratura inglese riscontri che lei possa avere degli elementi in comune con queste grandi scrittrici dell’Ottocento?

Sì, assolutamente. Le sue storie hanno a che fare molto spesso in con vicende di consapevolezza femminile. Sono molto spesso coming of age novels [romanzi di formazione] oppure, come ne Il sogno più dolce, vicende di donne che lottano in un qualche modo per affermare loro stesse, per trovare la felicità, per trovare un equilibrio. Quindi questi temi sicuramente la avvicinano molto al romanzo dell’Ottocento inglese, soprattutto quello femminile. Pensiamo a Jane Eyre, ai romanzi di Charlotte Brontë in genere.

Tu sei anche una scrittrice: produci anche ex novo. È difficile coniugare questi due aspetti? Visto che ti piace scrivere nella tua lingua con la tua voce, devi zittire qualcosa quando traduci?

Sì, questo è un problema sicuramente mio e sentito da chi traduce e scrive. Anche qui c’è uno scambio che può essere più o meno vantaggioso per lo scrittore-traduttore. Da una parte è ovvio che traducendo e frequentando una lingua letteraria, anche non italiana, quindi avendo una visione più ampia, non solo in termini di tradizione letteraria, ma proprio di frequentazione linguistica, è un grande aiuto a livello stilistico per chi scrive, perché è come se la propria lingua venisse dilatata. Quindi questo è sicuramente un vantaggio per chi traduce e scrive, e poi c’è ovviamente il fatto che le voci che si traducono più sono potenti, forti, caratterizzate, belle, e più sono in qualche modo fagocitanti, e quindi per trovare la propria voce magari bisogna ogni tanto farle tacere. Per quanto mi riguarda, il momento della scrittura per me deve essere sempre molto separato da quello della traduzione perché è come se io avessi bisogno di fare silenzio per assumere un atteggiamento autoriale e autorevole rispetto alla scrittura.





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