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Ti raccontiamo il nuovo romanzo di Marcello Fois: Del dirsi addio  (Einaudi editore, collana Supercoralli, 296 pagine), che secondo noi ti piace se sei fatto così:

Genere: maschio o femmina

Età: dai 25 anni in su

Carattere e stato d’animo: Sei un lettore esigente e chiedi a un romanzo di soddisfare la tua sete di storie ma anche di appagarti con lo stile e di lasciarti nella testa un retropensiero.

Libri piaciuti: La ballata di Adam Henry di Ian McEwan, Una storia nera di Antonella Lattanzi, Luce perfetta di Marcello Fois

Abbiamo intervistato l’autore. Premi play sulla barra sottostante (o scarica il podcast qui).

Oppure ancora leggi la trascrizione dell’intervista:

La letteratura esorcizza il dirsi addio?

La letteratura qualifica il dirsi addio, che mi sembra abbastanza più importante. Non c’è niente di male: i congedi non sono necessariamente un atto definitivo; qualche volta un congedo saluta definitivamente qualcuno, qualche volta saluta invece l’arrivo di qualcos’altro, di una nuova stagione, di una scelta diversa, di una persona diversa, e quant’altro. Quindi la letteratura in definitiva moltiplica la gittata del dirsi addio, non lo riduce semplicemente a una condizione di congedo. Non lo collega paradossalmente nemmeno solo alla morte, o al lasciarsi. Qualche volta dissi addio significa capire che si è un’altra cosa, e agirla, ecco.

Questo romanzo racconta la storia di amori non pronunciati, che si spingono al loro confine estremo. Eppure questa storia è anche un noir: c’è un mistero da risolvere. Come mai hai deciso di scegliere questo genere narrativo?

Perché è un dispositivo che ti permette la disobbedienza rispetto ad altri dispositivi che sono più rigidi, come il rosa per esempio, o il melò. Anche il giallo, sotto certi aspetti, è più rigido del noir. Il noir è il più elastico di tutti, è quello che prevede la disobbedienza, una gestione non monocratica del tutto quindi è un genere che mi piace molto, perché attiene alle motivazioni piuttosto che ai meccanismi: mi permette di lavorare meglio con i miei personaggi, di non essere necessariamente congruo e quindi di fare un romanzo dove le cose accadono come dovrebbero. In certi romanzi si ha una sensazione di geometria del meccanismo che sembra un po’ irreale, invece a me piace mimetizzare molto la realtà, dare l’impressione che quello che si legge sia assolutamente vero anche se non lo è, perché poi per ottenere la verità nei romanzi bisogna dire molte bugie…

Hai ambientato Del dirsi addio a Bolzano (in copertina c’è un uomo nella neve) ed è la prima volta. Come mai hai scelto l’Alto Adige?

Perché dopo undici anni di “trilogia Chironi” [NdR: il ciclo di romanzi Stirpe, Tempo di mezzo, Luce perfetta ambientati in Sardegna] di rapporti col mio intimo territoriale secondo me volevo prendermi una vacanza. Poi è chiaro che non ce l’ho fatta: non sono proprio in grado di considerare la scrittura una vacanza.

Una vacanza da cosa?

Una vacanza dal training autogeno che significava discutere delle proprie radici, della propria provenienza, del tessuto antropologico da cui vieni… è un lavoro di scarnificazione che alla fine finisce, quindi mi sono detto: adesso basta, il prossimo romanzo – punto primo – non sarà in Sardegna, – punto secondo – non sarà una saga familiare, – punto terzo – sarà un romanzo di genere, quindi sarà un noir e ci sarà un inchiesta. Volevo veramente sentirmi fuori dal l’onere dell’autocoscienza, non ci sono riuscito in verità.

Il commissario Striggio che è il giovane protagonista di questa storia è un personaggio che sembra poter dare inizio ad una futura possibile saga, o no?

Speriamo. A me piace molto: è uscito bene e gli voglio bene. Sai, tra gli autori e personaggi si genera una sorta di feeling che c’è o non c’è. I personaggi, secondo me, quando sono fatti bene acquistano quasi immediatamente la loro autonomia rispetto a chi scrive e discutono molto anche sulle scelte a cui vengono sottoposti nel libro. Ecco Striggio è uno di quelli: è un giovane commissario che fa una scelta, anche d’amore tutto sommato, perché si fa trasferire a Bolzano, dove c’è la persona che lui ama, in un posto dove ufficialmente non succede niente… quindi io mi sono divertito a fare in modo che in quel posto improvvisamente succedesse qualcosa: la scomparsa di un bambino di 11 anni che innesca una specie di doppia indagine. Da una parte l’indagine regolare, quella che gli inquirenti fanno in casi di questo tipo, dall’altra invece una specie di transfert che il commissario ha nei confronti del bambino, nella cui storia si riconosce e quindi in qualche modo fa un’indagine che è certo di carattere regolare, ma contemporaneamente è anche un’indagine su di sé, sulle proprie scelte, sulla propria identità, sul rapporto con suo padre e così via. Una cosa fa improvvisamente scaturire l’altra, a carambola: questa è l’idea che avevo. E per ottenere ciò ci vuole un personaggio fortemente autonomo, cioè che sia davvero in grado di muoversi con una sua specificità. Non basta l’autore, in questi casi ci vuole proprio la “rotondità” del personaggio, il suo apporto psicologico: a un certo punto in una certa misura spiega all’autore come è giusto fare, come si comporterebbe lui rispetto alla sua biografia, rispetto alla sua psicologia, eccetera. Tra me e Striggio c’è proprio questo tipo di rapporto.

È l’adagio di cui parlano molti autori quando dicono che i personaggi fanno un po’ di testa loro…

Fanno un po’ di testa loro quando sono scritti con perizia, nel senso artigianale del termine: fare un personaggio significa in qualche modo educare un figlio, prendersi la responsabilità anche di essere impopolare nei confronti il personaggio, e vedere come poi reagisce, come si comporta. È il nucleo del rapporto che c’è tra il commissario e suo padre, nel romanzo. Sergio Striggio è un ragazzo che avrebbe potuto fare tutt’altro nella vita, che ha fatto studi di grande spessore, e invece poi, non si sa se per vendetta o per emulazione, ha deciso di fare il poliziotto, esattamente come suo padre. Anzi, in qualche modo lo ha superato, perché suo padre era ispettore capo, mentre Striggio vince il concorso come commissario, quindi fa un gradino in più. Ecco, tutto questo in una certa misura me l’ha suggerito lui: mi ha chiesto proprio di porsi in questi termini, e ciò deriva anche da un’illusione che spesso gli scrittori hanno nei confronti dei personaggi che scrivono, cioè quella di farla franca… e invece poi con Striggio è stato abbastanza impossibile, per quanto mi riguarda.

Proprio perché mi parli di padre di figli e di educazione (so che sei stato anche un insegnante) ti chiedo: se dovessi dare un consiglio a un giovane autore che volesse provare a misurarsi con la scrittura, che cosa gli diresti?

Gli direi intanto di qualificarsi come lettore senza dubbio. Io sono della squadra di quelli che pensano che un buon lettore possa essere un bravo scrittore, ma che è un non lettore non possa comunque essere un buono scrittore. Questa è una mia categoria, opinabile secondo alcuni, ma io ci credo fermamente. Credo che la prima fase di ogni scrittura sia la capacità di leggere: se non sei in grado di considerare la materia che produci, è evidente che non sei affidabile come scrittore. Non si capisce perché dovrei leggere libri scritti da uno che si vanta di non leggere, mi sembra paradossale che uno ritenga esecrabile l’attività che poi svolge.

I tuoi libri sono belli per trama, sono avvincenti, ma la cosa che a noi lettori piace moltissimo è trovarci la tua parola, che sembra così spontanea ancorché perfetta. Quanto ci lavori sopra? come ti riesce di creare un libro che sia così perfetto dal punto di vista stilistico?

Lavoro moltissimo chiaramente, e non sono contento. È questa la cosa fondamentale, per quanto mi riguarda. Ecco perché serve il buon lettore in questa fase. Perché capisce che in letteratura la chimera principale è proprio l’idea di semplicità che si può offrire a lettore. Scrivere complicato è facilissimo. È un paradosso ma è così. E scrivere semplice è difficilissimo, perché dentro la grande scrittura semplice ‒ penso a Roth, penso a Calvino, penso alla Morante ‒ si organizza una stratificazione che nella scrittura complicata ‒ non dico complessa, ma complicata ‒ non si trova. La scrittura complicata è semplicemente performatica e onestamente non mi interessa molto. Ed è uno dei problemi maggiori che hanno gli scrittori esordienti, il desiderio di stupire con effetti speciali, però i grandi lettori sono difficilissimi da stupire. Hanno già visto tutto. I grandi lettori li stupisci con minuzie, nelle pieghe, li stupisci con il punto di vista. Banalmente non li stupisci nemmeno nelle storie, che sono sempre ostinatamente uguali. Quindi in questo senso quando dici a un autore che il suo libro è scritto bene, in qualche modo stai dichiarando un problema che  in questo paese abbiamo rispetto alla scrittura: non c’è un’alternativa a scrivere bene, se sei uno scrittore, non vedo quale sia l’altra possibilità. Si può dire a uno scrittore del suo libro che è scritto male? Evidentemente uno a cui si può dire una cosa di questo tipo non è semplicemente uno scrittore, ma è un’altra cosa. E va bene. È uno che pubblica, va bene. È uno scrivente, va bene. Però in questo paese gli scrittori sono veramente molti, molti meno di quelli che pubblicano, e quindi è importante capire in che territorio si abita. A me fa piacere abitare dove è importante fare bene il proprio lavoro.

Grazie Marcello Fois, aspettiamo allora di vedere se Striggio ti suggerirà una nuova storia…

Credo proprio di sì. Lo posso anticipare, il prossimo sarà ancora uno Striggio.

 





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